Equilibrio di coppia: un obiettivo tanto delicato quanto faticoso da raggiungere
Fare terapia con le coppie è un lavoro diverso rispetto a quello portato avanti in una psicoterapia individuale. Provo, come faccio sempre quando bisogna sintetizzare in poche pagine i passaggi che individuano un denominatore comune nei percorsi terapeutici, a focalizzare l’attenzione su ciò che di generalizzabile c’è nel lavoro che si svolge con due partners in seduta congiunta: ciascun elemento è quanto meno doppio, ogni situazione significante solo all’interno della propria cornice. Questo rende le generalizzazioni impossibili, o quantomeno ardue.
L’unica “dinamica aurea” che mi sono portato gelosamente a casa dopo le ore in seduta di terapia di coppia è una sorta di principio di causalità circolare e di retroazoni che ho potuto osservare con una certa regolarità come elemento tendente a ristabilire l’equilibrio della coppia ed ho appreso che nella difficoltà di discernere ciò che si potrebbe definire “patologico” da ciò che non lo è, si può far ricorso con rassicurante buon senso (clinico) ad un aspetto concreto della relazione tra due coniugi: la coppia nella quale le retroazioni e i processi circolari alimentano (piuttosto che attenuare) processi e vissuti patologici innescati da uno dei due potrà, con minore approssimazione, essere definita “patologica”.
Tutti i percorsi di coppia ci dicono, infatti, che i partners si dispongono in ruoli opposti rispetto ad una o più problematiche comuni (quali ad esempio: l’esiguo sostegno genitoriale, l’eccessivo peso di un vissuto di riscatto, il bisogno/capacità di fidarsi e di affidarsi, ecc.).
Questo è il tipo di equilibrio che permette ai due partners di trovare nella coppia quella “struttura rifugio” che regala loro una sufficiente sicurezza di fronte alla “minaccia” di bisogni profondi (di dipendenza, di protezione, ecc.) al cospetto dei quali ciascuno dei coniugi vive sensazioni eccessivamente destabilizzanti. La coppia, per ciascun partner, ha prima di tutto una funzione protettiva rispetto agli aspetti peggio controllati di se stesso.
Non a caso la crisi coniugale arriva quando uno dei due partner (o entrambi) non svolge più questa funzione “protettrice” (o difensiva) per l’altro: il coniuge avverte una sensazione indefinita di “tradimento” di un patto (implicito) che fino a quel giorno era stato, inconsapevolmente, vitale (in quanto a protezione di angosce molto profonde!).
Ma cosa porta un partner a spostarsi da una posizione che è vitale per l’altro? Basta un semplice passaggio del proprio percorso di vita: una malattia, una promozione, un periodo di disoccupazione, la pensione, l’uscita dei figli, una psicoterapia individuale, la morte di uno dei genitori, ecc.
Il Servizio all’interno del quale lavoro è rivolto alle famiglie ed accoglie richieste riguardanti tanti tipi di problematiche. Spesso ci capita di prendere in carico una coppia uno o due anni dopo la fine del percorso individuale di uno dei due partners. Quando tale percorso è stato svolto con uno dei colleghi dell’equipe, il terapeuta che prende in carico la coppia ha la possibilità di accedere a tutti i passaggi maturativi del partner che ha fatto la terapia personale che ha funzionato da “apri pista” alla crisi di coppia. Più semplicemente il percorso individuale ha spostato “in avanti” (dal punto di vista della maturazione personale, della conoscenza di sé) uno dei due partner, togliendolo da una posizione che (per quanto per certi aspetti “involutiva”) era funzionale all’equilibrio della coppia che aveva, fino a quel momento, permesso ai due coniugi di viversi come indispensabili l’uno per l’altro. L’aumentata capacità di elaborazione dei sentimenti e di definizione delle relazioni acquisita da uno dei due grazie ad un percorso individuale, sposta gli equilibri e ridisegna un nuovo “equilibrio di potere” in seno alla coppia. Questa situazione coglie spesso le coppie di sorpresa: magari erano coppie che avevano sempre vissuto una dipendenza reciproca molto stretta, da sempre scambiata per indice dell’intensità del proprio legame (ma “intensità del legame” e “dipendenza affettiva” sono cose assai diverse!).
Spesso la richiesta di una terapia è preceduta da sfibranti dinamiche che definirei lunghi periodi di “guerre di atteggiamento”: i due partners si alternano nel mostrare all’altro un atteggiamento improntato ad autonomia (cosa, in realtà, assai diversa da un’autonomia reale), che lascia intendere ad una improvvisa capacità di vivere da solo. Questi scambi, spesso impliciti, sono finalizzati esclusivamente al tentativo di ristabilire su nuovi punti un equilibrio di potere che chiede di essere ridefinito.
Devo dire che non sempre questi elementi sono immediatamente visibili in terapia: spesso, infatti, il potere è celato e non dichiarato. Chi ha più autorità tende a mascherarla. A volte l’autorità di uno dei due partners viene portata addirittura come atteggiamento liberale: il “mascheramento” protegge il potere da eventuali attacchi da parte del partner che ne ha meno. Questo mi ha permesso di comprendere una “regola” della comunicazione di coppia: i messaggi di autorità sono sempre carichi di paradossi (“non credo che tu possa, ma …”; “mi farebbe piacere se …”; “vorrei soltanto che tu mi mostrassi spontaneamente più amore”).
La modalità di gestione di queste complesse dinamiche è sempre un ricco luogo di lavoro in una terapia di coppia: come dicevamo prima, la coppia è un terreno nel quale il confine tra normale e patologico è particolarmente incerto! Un buon indicatore, rispetto al grado di “patologia” della coppia, è l’impossibilità di arrivare a tollerare una relazione dove ci sia ambivalenza tentando di conservare l’immagine completamente positiva del partner e della coppia e negando nell’altro una parte poco gratificante.
Le situazioni più complesse possono essere prese in carico in co-terapia: i due professionisti sono generalmente un uomo e una donna per garantire alla coppia una maggiore capacità identificatoria. La differenza di genere dei due terapeuti presenta infatti alcuni vantaggi:
- riduce al minimo i rischi di schieramento (ad es. maschi contro femmine);
- facilita la comunicazione nel senso che sensibilità diverse aiutano a focalizzare aspetti diversi della relazione;
- permette alla coppia di apprendere dal vivo una modalità di confronto tra maschi e femmine senza sopraffarsi offrendo un modello di condivisione;
- dà alla coppia la sensazione che ognuno dei partner può pensare di avere un alleato alla sua causa;
- permette ai terapeuti di comprendere e riconoscere i segni controtransferali presenti in seduta;
- amplia le risorse per un contributo positivo nella gestione del conflitto.
La co-conduzione ci facilita soprattutto rispetto al lavoro di recupero della propria individualità da parte di ciascuno dei partner, nella misura in cui offre un modello di “co-eistenza” e di condivisione non minaccioso per il sentimento di integrità di cui l’individualità di ciascuno di noi ha bisogno. Questo tipo di lavoro facilita, inoltre, l’indispensabile percorso di “liberazione” dai mandati e dai fantasmi trigenerazionali che ciascuno dei due partner porta con sé e nella cui “drammatizzazione” ha inconsapevolmente coinvolto l’altro.
Il recupero delle due solitudini condurrà la coppia ad una nuova unione, più matura e più consapevole: un’unione che ha avuto il coraggio di passare attraverso la disillusione e la forza di sopravvivervi.
BIBLIOGRAFIA
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Lemaire J.G. [1981], Vita e morte della coppia, Cittadella editrice
Losso R. [2000], Psicoanalisi della famiglia, Franco Angeli
Cigoli V. [1993], L’alleanza e il suo svincolo: coniugalità e psicoterapia, in “Psicobiettivo”, n. 1